1383 Simona Grossi Articoli
17 settembre, 2018

Il gender gap è ancora troppo alto, l'Italia ci perde in diritti e in fatturato

In Italia il mondo imprenditoriale è ancora purtroppo permeato di un gender gap che, nonostante le trasformazioni sociali e del mercato del lavoro stesso, nel 2018 rimane ancora a livelli tristemente alti.

Secondo i dati Istat 2017 in seguito al conseguimento di un titolo di laurea, infatti, solo il 59,2% delle donne neolaureate lavora contro il 64,8% per gli uomini, mentre se andiamo a guardare il percorso accademico è piuttosto emblematico verificare come la percentuale di 30-34enni con un titolo di studio terziario è del 32,5% per le donne rispetto al 19,9% per gli uomini.

Inoltre le carriere femminili risultano in media qualitativamente peggiori, a parità di posizione, infatti, percepiscono uno stipendio inferiore rispetto ai colleghi uomini. Con lo stesso curriculum, poi, si registra un più lento e difficile avanzamento di carriera in base al genere, e le donne risultano ancora tristemente sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali e apicali. In Italia le donne manager nel privato rappresentano il solo 22%, a fronte di una media europea del 29%, guadagnando addirittura il 3% in meno[1].

Quest'aspetto fortemente discriminatorio è però un boomerang per il mondo delle imprese, soprattutto in determinati settori, dove è appurato che il contributo del genere femminile nell'aspetto manageriale apporterebbe una notevole crescita sociale ed economica. Un recente report di McKinsey, ad esempio, ha evidenziato come la diversificazione di genere in posizioni manageriali sia spesso abbinata a miglioramenti performativi delle aziende stesse.

Fortunatamente è lo stesso mercato del lavoro che si sta riformulando, adattandosi a standard più fluidi e di movimento, e quindi la trasformazione digitale nelle imprese può spingere verso una diffusione di pratiche lavorative flessibili, in orari e impegno, in modo da consentire una redistribuzione del tempo all’interno delle coppie e per le donne una migliore conciliazione che vada oltre la semplice dicotomia lavoro e famiglia, in grado di considerare cioè anche l'aspetto della carriera troppo spesso bypassato.

A oggi In Italia questo tipo di lavori sono cresciuti del 14% tra 2016 e 2017, e i grandi business con progetti strutturati di smart working rappresentano circa il 36% del totale[2]. Questo a provare quanto detto prima, e cioè che stiamo vivendo un periodo di riassestamento da parte del mondo del lavoro, e in questo nuovo ordine spiccano quelle realtà in grado di abbracciare strutture e pratiche smart, partecipative, orizzontali, inclusive. Tutte caratteristiche tipiche, cioè, del management al femminile.

Non è un caso, quindi, che negli ultimi anni ha acquisito un riconoscimento maggiore il bisogno di conciliazione delle donne con il lavoro, e il welfare aziendale è venuto incontro alle politiche pubbliche in materia, attuando sempre più programmi di work life balance. Per quanto riguarda le misure pubbliche le principali si riscontrano nei voucher per le donne lavoratrici e il congedo parentale.

La legge 92/2012 ha introdotto i voucher per le lavoratrici che, da gennaio 2018, con l’abrogazione dei voucher, sono stati rinominati come “contributo per l’acquisto di servizi di baby-sitting” ed erogati secondo le modalità previste per il Libretto Famiglia. Il congedo parentale a ore, invece, è fruibile per un massimo di 10 mesi per entrambi i genitori, fino ai 12 anni del bambino[3].

Rappresentano questi decisamente dei passi in avanti da parte delle Istituzioni per l'abbattimento del gender gap, ma purtroppo ad oggi non possono e non devono bastare nei termini di una completa ed etica trasformazione dell'ambiente lavorativo, ancora troppo patriarcale e strutturalmente rigido su posizioni controproducenti.

E' quindi tempo che la società civile dia una spinta alle stesse istituzioni, rimescolando il mercato del lavoro per permettere alle aziende di fare quello scatto evolutivo che le renderebbe in grado di affrontare e superare la rivoluzione del lavoro in atto.

Simona Grossi