1194 Simona Grossi Articoli
13 giugno, 2019

Finalmente una legge nazionale sul pay gap: l’Islanda detta la linea al resto del mondo

Una disparità che continua a sopravvivere incolume con l’avanzare del tempo determinando forti ingiustizie in campo socioeconomico è quella che vede il genere femminile, a parità di meriti, percepire salari decisamente più bassi rispetto al genere maschile, un problema comunemente noto come gender pay gap. Come evidenzia l’OCSE, infatti, la forbice retributiva tra i due sessi rimane ancora del 5,6% se guardiamo i lavoratori a tempo pieno (la categoria che, storicamente, presenta la maggiore uniformità salariale), un dato insufficiente a trasmettere una reale dimensione del problema se consideriamo che il 40% delle donne in Italia, secondo l’Istat, è a part-time o regolata secondo altre forme contrattuali.

Un'altra distorsione del dato è dovuta al fatto che c’è una netta differenza tra la differenza di salario nel pubblico e nel privato. Secondo dati recentemente pubblicati da Eurostat, infatti, il gender pay gap negli uffici pubblici si assesterebbe intorno al 4,1% (una percentuale tutto sommato dignitosa in confronto ai nostri vicini europei), mentre se volgiamo lo sguardo al settore privato lo stesso arriverebbe addirittura a superare il 20%[1].

Sono dati drammatici, addirittura troppo ottimistici visto che, come ha chiarito lo stesso Eurostat[2], nell’analisi è esclusa la percentuale di disoccupazione femminile e tutte le contrattualizzazioni che non prevedono soluzioni diverse dal tempo pieno.

Continuando ad analizzare il report dell’Istat poi, notiamo come nel 2016 a percepire una retribuzione oraria superiore ai 15 euro siano state soltanto il 17,8% delle donne, a fronte del 26,2% degli uomini. Così come guadagnare meno di 8 euro è stata una prerogativa dell’11,5% delle donne e del solo 8,9% degli uomini. Se guardiamo ai liberi professionisti, invece, l’ultimo rapporto di AdEPP (Associazione degli Enti di Previdenza Privati, organo che misura i dati sui redditi di professionisti dipendenti o freelance in Italia) ci dice che nella fascia d’età che va dai 30 ai 40 anni la media di guadagno maschile è di 20 mila euro lordi, quella femminile di 17 mila. Spostandoci sulla fascia dai 40 ai 50, addirittura, i primi guadagnano mediamente 40 mila euro mentre le donne si fermano a 25 mila euro.

Naturalmente non si tratta di un fenomeno prettamente italiano, ma una situazione emergenziale che continua a manifestarsi in tutto il mondo in forme diverse e che impedisce, oltre che una legittima eguaglianza sociale e di diritti, anche una potenziale ricrescita economica e un nuovo sviluppo imprenditoriale.

Tanto che il mondo calcistico (o quantomeno una gran parte di esso, dal momento che in Italia questa notizia è passata in sordina) si è trovato davanti ad un gesto tanto inaspettato quanto rivoluzionario: “I don’t mean to beat a dead horse (what a weird saying) but why exactly is Hegerberg not playing with Norway?  If Messi or Ronaldo opted to not play in a World Cup the world would know why not with clarity (Non intendo mettere il dito nella piaga, ma esattamente perché Ada Hegerberg non gioca con la Norvegia? Se Messi o Ronaldo scegliessero di non giocare in una Coppa del Mondo, il mondo saprebbe il perché con chiarezza)” ha twittato la calciatrice statunitense Heather O’Reilly accendendo i riflettori sul gesto della sua collega Ada Hegerberg, attuale Pallone d’Oro e quindi, teoricamente, la professionista più talentuosa in circolazione su scala globale.

Il talento norvegese ha infatti deciso di non partecipare ai prossimi Mondiali di calcio che prenderanno piede la prossima estate in Francia, e lo ha fatto per protestare in maniera decisa e, si spera, definitiva, proprio contro la disparità salariale tra i generi che in questo settore è, se possibile, ancora più pronunciata. “Non si tratta di soldi ma del fatto che ragazzine che seguono le orme del primo Pallone d’Oro donna [l’edizione del 2018 è stata, per questo trofeo, la prima della storia] non abbiano le stesse opportunità delle controparti maschili”, ha infatti dichiarato la stessa Hegerberg alla Cnn, manifestando un’enorme insofferenza nei confronti della mancanza di investimenti sul calcio femminile. “So quello che voglio e conosco i miei valori e quindi diventa più facile fare scelte difficili quando hai questa consapevolezza. Alla fine tutto ha a che fare con il rimanere fedele a te stessa, essere te stessa” ha poi concluso[3].

C'è ancora molta strada da fare, quindi, per far si che al genere femminile sia concessa la stessa parità di diritti e di opportunità di cui godono, invece, gli uomini” avevo scritto in un mio precedente articolo[4], e tuttavia sembra che qualcosa si stia davvero muovendo nella giusta direzione.

Ad esempio, in Regione Lombardia, il Partito Democratico ha recentemente proposto lo stanziamento di 3 milioni di euro l’anno per politiche volte a sostenere la parità lavorativa tra i sessi. La consigliera Paola Bocci, prima firmataria del provvedimento, ha infatti dichiarato come “anche in Regione Lombardia le donne spesso guadagnano meno dei loro colleghi uomini, pur facendo lo stesso lavoro. Le ragazze, a scuola, sono spesso più brave dei loro coetanei, ma quando iniziano a lavorare il loro percorso di crescita è più lento e spesso si interrompe per motivi di famiglia, perché su di loro grava in misura maggiore, se non esclusiva, il carico di cura dei figli e dei congiunti anziani o malati. Le donne, quindi, guadagnano meno quando lavorano e sono destinate ad avere pensioni inferiori. È una disparità che va superata”. Quello a cui si punta è il cambiamento della stessa legge regionale sul mercato del lavoro, che “deve attivarsi per la parità salariale, facendo emergere le ragioni di questo divario, premiando le aziende che lo contrastano e favorendo la formazione scientifica e tecnica delle ragazze. Non ultimo, occorre un tavolo di monitoraggio che tenga insieme istituzioni, università, associazioni di categoria e sindacali che verifichi l’evoluzione del fenomeno e studi correttivi che possano essere messi in campo dalle aziende o dalla Regione stessa”, ha continuato la stessa Bocci.

Tale progetto di legge si prefigge quindi di sviluppare iniziative quali la raccolta e l’elaborazione dei dati per mappare le retribuzioni, l’orientamento a didattiche e programmi di formazione per le ragazze a scuola, l’istituzione di un Albo di imprese virtuose specificatamente certificate e la messa in piedi di un Tavolo di lavoro permanente, patrocinato dalla Regione stessa, che sia aperto ai sindacati, alle organizzazioni datoriali e alle Università[5].

Ma la notizia più interessante e il vero salto in avanti per quanto riguarda l’avanzamento dei diritti femminili e l’annullamento del gender pay gap ci viene, come spesso accade, dall’estero, nello specifico dall’Islanda, dove è finalmente entrata in vigore una norma che mira entro il 2020 ad azzerare qualsiasi differenza salariale tra i generi.

Reykjavík, sotto il governo della verde Katrin Jakobsdóttir formato da una grande coalizione di centrosinistra, ha infatti ufficialmente approvato la legge più severa al mondo su questo tema: ogni istituzione pubblica e privata, azienda, ente bancario o società con più di 25 dipendenti è obbligata ad assicurare pari salari alle donne con pari qualifiche degli uomini, pena una multa di circa 50mila corone islandesi per ogni caso individuale di violazione dell’obbligo.

Certo è che rimane ancora molta strada da fare sui temi dell’avanzamento di carriera e sul mercato del lavoro, ancora ampiamente guidato e trainato dagli uomini, ma sembra proprio che questa applicazione graduale della norma (che obbliga le aziende più grandi ad uniformarsi entro il 2020 e quelle più piccole fino al 2025) rappresenti una vera e propria conquista retributiva da parte delle donne di tutto il mondo[6].

Simona Grossi